Cosa potrebbe pensare della sua malattia un malato di Alzheimer?

“La malattia di Alzheimer è una ladra.

Mi ha rubato quello che ho accumulato nella mia mente per una vita, quello che ho imparato, giorno per giorno.

Ho studiato, con fatica, e sapevo cos’era il mondo, adesso non so più cos’è un cappello.

Sono stato con tante persone, ho capito perché uno era buono e un altro era cattivo, ho imparato a riconoscere chi parlava per insegnarmi e chi per imbrogliarmi, chi mi amava e chi mi odiava. Adesso sono tutti uguali.

Ho costruito l’amore tra me e chi mi è stato accanto nella vita. Adesso non so più perché dovrei amare queste persone e perché loro mi amano.

Adesso non so più chi sono. Sai perché? Lei fa girare all’indietro le lancette dell’orologio dei miei ricordi.

Sapete che mi succede una cosa strana? Non sono io a dirmi queste cose, io ripeto quello che qualcun altro mi ha detto, perché non me ne accorgo di avere questa ladra nel cervello. Fra un minuto non ricorderò tutto questo.

Io e Benjamin abbiamo tanto in comune. Anch’io finirò così.”

Conoscete la storia di Benjamin Button, il protagonista di un celebre libro di Scott Fitzgerald?

Benjamin Button, era uno strano bambino.
La sua tata, Nana, con il suo bel vestito di cotone inamidato, ora era al centro del suo universo. Lo portava a passeggio nel parco e gli faceva vedere il grande mostro grigio. Gli diceva che era un elefante e Benjamin lo ripeteva. La sera, quando era ora di andare a dormire, continuava a ripetere elefante, elefante, elefante. La tata lo lasciava saltare sul letto; lui si divertiva a rimbalzare prima in piedi e poi seduto, come un piccolo acrobata.

Gli piaceva anche battere un grosso bastone da passeggio che lui prendeva dall’attaccapanni, e colpire sedie e tavoli dicendo: «Combatti, combatti, combatti» e verso sera, all’ora di cena, andava in camera sua con la tata che gli dava da mangiare zuppa di avena e dolcissimi bocconcini che gli piacevano tantissimo. Era felice, non aveva brutti ricordi. Anzi non ricordava proprio nulla: né i bei tempi dell’università e della sua giovinezza, né quando ogni ragazza che incontrava, s’ innamorava perdutamente di lui.

Il suo mondo era fatto dalle pareti bianche e sicure della culla, dalla sua tata Nana, da un uomo che ogni tanto veniva a trovarlo, e da un pallone arancione sospeso nel cielo, che Nana gli faceva vedere prima di metterlo a letto, dicendo: «sole». Quando il pallone arancione se ne andava, significava che era il momento di dormire. Il suo sonno era tranquillo e senza sogni. Il passato, la furibonda conquista a capo dei suoi uomini su per la collina di San Juan, il primo anno di matrimonio, quando nelle sere d’estate lavorava molto, fino a tardi e a casa lo attendeva la sua amata e giovane Hildegarde, e i giorni ancora precedenti a questo periodo, le notti a fumare sigari nella buia vecchia casa dei Button a Monroe Street con suo nonno, tutto questo…. non c’era più. Come se si fosse trattato di sogno di quelli che si dimenticano appena svegli, come se niente fosse mai esistito.

Non ricordava. Non sapeva nemmeno se il latte che beveva fosse tiepido o freddo o come fossero le sue giornate. La culla e il calore di Nana, era tutto quello di cui era appena consapevole. Poi non fu più consapevole di nulla. Piangeva per far capire che aveva fame. Nient’altro. Il suo respiro regolare durante il giorno e la notte era sorvegliato. Udiva appena i leggeri mormorii e sussurri sopra la sua culla, e gli odori e poi la luce e il buio. Poi sparì anche la luce e così la culla e quelle ombre sopra di lui e il buon profumo del latte. Tutto scomparve e nella sua mente non restò più nulla.


Un romanzo sull’Alzheimer, sull’amore e sull’amicizia, scritto dal Neurologo Marco Marchini, dall’alto del suo osservatorio privilegiato sul mondo della malattia.

“L’ombra non protegge dalla pioggia” è disponibile su Amazon e su tutte le principali librerie online in formato ebook e cartaceo.

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